L'appuntamento, "Ti amo" "E' sbagliato"

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(¯`•. Prin¢ess Dreamer .•´¯)
view post Posted on 3/5/2011, 16:53




L’appuntamento


E sono seduta ancora qui. Penso, penso, penso... Non posso fare altro d’altro canto. Cosa si può fare in situazioni del genere?
Avevamo l’appuntamento alle 15:00, all’angolo dove c’è il bar “Da Mimmo”, l’unico del nostro paesino.
Mi è sempre piaciuto vivere qui. Poche case, poche persone, poco caos. Niente a che vedere con la mia vita di prima, nella confusione della città. Abbiamo fatto bene a trasferirci, si sta davvero bene qui.
Ero in piedi e guardavo con insistenza la strada. Era in ritardo...
Alzai lo sguardo, il cielo era livido sopra di me: grossi nubi nere facevano presagire l’arrivo di uno dei soliti temporali primaverili. Sospirai sconfortata. Non avevo voglia di aspettare sotto l’acqua, speravo che arrivasse presto.
16:00, nessuno in vista.
Guardai il cellulare. Niente, non una chiamata o un messaggio. Decisi di chiamare io. Il telefono squillò a vuoto.
17:00, nulla di nuovo all’orizzonte.
17:30, la prima goccia cominciò a cadere. Fissavo continuamente l’orologio, alternando a quel gesto meccanico quello della chiamata al cellulare.
17:35, un motorino. Il suo!
Però... No, non era lui. Era un suo amico.
“È morto”


La camera da letto, ordinata come al solito, era illuminata da un caldo sole. A levigare il silenzio cristallino c’era solo il rumore del vento che muoveva le fronde degli alberi del vialetto. Cristina si svegliò quando un raggio fece capolino tra le tende chiare e le investì gli occhi. Si prese il cuscino da sotto la testa e se lo premette sul viso. Voleva dormire. Aveva passato la notte insonne, popolata da incubi e ogni volta riaffiorava l’immagine di Marco, disteso in strada. Allora si svegliava, pensava che si trattava solo di un sogno e poi urlava perché capiva che era la verità. Tutto in uno stato di sonnambulismo, non ricordava quante volte avesse ripetuto quell’operazione e non sapeva neanche se gridava veramente o se quell’urlo che sentiva era il suo cuore o la sua bocca. Non lo aveva mai visto davvero sdraiato sotto quella macchina che lo aveva investito due mesi fa, ma se lo immaginava. Lui, bellissimo, i capelli corvini sparpagliati sull’asfalto, una posa scomposta. Sangue.
Il sole era sempre più alto e la sua luce irradiava, ormai, mezzo letto. Cristina decise di rinunciare, tanto non sarebbe riuscita a riprendere sonno. Mosse le gambe intorpidite e stiracchiò i muscoli indolenziti, quasi quella notte avesse fatto a pugni con qualcuno. Fece leva sulle braccia che le dolsero nel momento in cui anche il busto arrivò in posizione eretta. Si sedette sul bordo del letto con molto fatica. Nella mente annebbiata dal sonno, dalle angosce e dalle paure, si fece largo l’unico pensiero lucido che inconsciamente la sua mente produsse. Limpido come quel cielo fuori dalla finestra, chiaro come il sole: È oggi il giorno in cui morirò?
Cristina scosse la testa terrorizzata da quella sua stessa idea. Ma per un momento ci aveva creduto veramente e non ne era affatto spaventata. Ora, invece, un lieve turbamento la opprimeva. Era orripilata da se stessa, dai pensieri insensati che aveva. Perché quella domanda doveva essere il suo primo pensiero mattutino?
Si alzò dal letto sconvolta. Si avviò in bagno: doveva assolutamente sciacquarsi la faccia. Aprì il rubinetto con mano tremante e godette nel momento in cui sentì l’acqua fresca bagnarle le dita. Si azzardò ad alzare lo sguardo verso lo specchio, quasi avesse timore di vedere la propria immagine. Le sfuggì un grido d terrore e cadde all’indietro, rovesciata sul pavimento, gli occhi fissi sul suo riflesso. Era stato un attimo, ma le era parso di vedere... non lei! Non sapeva neanche che cosa avesse visto, ma era sicura che non era lei. Si alzò e andò a controllare. Che avesse avuto un’allucinazione? Il volto era più magro e più pallido, le occhiaie scavate e i capelli le ricadevano coprendole in parte il viso. Era irriconoscibile. Toccò la superficie liscia, ancora con le mani bagnate, come per assicurarsi che il riflesso seguisse davvero il suo movimento e non fosse solo una brutta immagine dipinta. L’acqua scivolò lentamente lungo lo specchio là dove la mano si era appoggiata e le goccioline sformarono ancora di più il viso di Cristina. La ragazza non resistette più a quella vista. Corse nel letto e si accucciò sotto le coperte, il volto pieno di lacrime di terrore. Non sapeva neanche perché stava piangendo, non aveva un senso. Ma niente sembrava averlo quel giorno.
Singhiozzava senza ritegno, stringendo forte a sé le ginocchia. Un fitta al petto la fece smettere per un secondo, mentre il male la strozzava e le toglieva il fiato. Sentiva un dolore terribile di cui non conosceva l’origine, provava una paura immensa di cui non sapeva il motivo e, peggio ancora, si sentiva sola. L’immensa casa era vuota anche questa volta e il canto degli uccelli era coperto dall’acqua che continuava a scendere dal bagno.
Non riusciva a smettere di piangere, singhiozzava con una tale intensità e ormai era così esausta che sembrava che il sangue avesse smesso di circolare. Tirò sul col naso e se lo asciugò con la manica del pigiama, ma le lacrime non volevano saperla di fermarsi. Aveva paura, di tutto. Non voleva più uscire da lì e tutto le faceva talmente male che era sicura che non ci sarebbe riuscita neanche se avesse voluto. Per la prima volta, in tutta la sua vita, la tristezza le sembrò infinita. Quella mattina sapeva che non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti.
E se fosse veramente questo il giorno in cui morirò? Si chiese angosciata. Già, morirei senza poter vedere ancora una volta il sorriso di Marco. E in quel momento la tristezza si trasformò in rabbia. Uscì dal letto furiosa e tirò fuori da un cassettone un album di foto. Era grande, rilegato di un vivace color rosa e sull’etichetta era scritto il suo nome. L’aprì con foga, quasi volesse scoperchiarlo e ne estrasse la prima foto. Era lei da piccola, nuda con la schiuma in testa e su tutto il viso dopo il primo bagno. Lo shampoo era stato usato per farle un piccola cresta coi pochi capelli che aveva in testa. Cristina la guardò un attimo e con ancora le lacrime agli occhi la strappò con un gesto deciso.
Sono inutile.
Una seconda foto: lei, con un abitino corto rosso e bianco, seduta in un prato. In mano aveva una margheritina bianca e la fissava sbalordita.
Non sono riuscita a trattenerlo accanto a me. Pensò rivolta a Marco e con uno strappo ridusse in frantumi anche la seconda foto. Se solo non gli avesse dato quello stupido appuntamento quello stupido giorno... Lui non voleva uscire, voleva rimanere a casa perché non si sentiva tanto bene, ma lei aveva insistito, voleva vederlo a tutti i costi e voleva portarlo al bar. Era stato “Da Mimmo” che si erano incontrati, era il loro anniversario... Lei doveva vederlo!
Non merito che qualcuno si ricordi di me. Devo sparire!
Piangendo a più non posso strappava, una dietro l’altra, le foto della sua infanzia. Ogni volta che ne squarciava una emetteva un grido di dolore, ma non si fermava. Voleva completamente essere dimenticata. Le foto si succedevano imperterrite: compleanni, comunione, cresima, giochi con gli amici, saggi di fine anno... anni di ricordi, tutti in un unico album, tutti distrutti in un singolo istante.
Le lacrime le rigavano il volto. Ma non c’è una fine? E non sapeva se era riferito alle lacrime, al dolore o alle foto. La vista era così annebbiata che ormai non le distingueva neanche più. Le prendeva e le stracciava meccanicamente, mentre si insultava e si ripeteva che era solo colpa sua se Marco se n’era andato perché non aveva avuto la pazienza di aspettare fino a sera. Una confusione mentale la prendeva completamente e un’angoscia immotivata le serrava il petto. Cosa aveva? Non lo sapeva, sapeva solo che si meritava solamente di finire lì la sua esistenza, se solo il dolore di non poter rivedere più Marco le faceva evitare gesti avventati.
Arrivò finalmente all’ultima pagina. Le doleva tutto il corpo quasi il dolore morale equivalesse quello fisico. Prese in mano l’ultima foto, ma si bloccò. Qualcosa dentro di lei scattò perché riconobbe l’immagine. Era la sera del ballo di fine anno, quella foto che le avevano scattato i suoi genitori sulla scala. Il tempo si congelò e lei tornò con la mente a quella sera. Chiuse gli occhi per riassaporare il bacio di Marco sulle sue labbra, per rivivere l’emozioni provate. Il loro primo bacio...
Li riaprì di scatto e si alzò in piedi più furiosa di prima. Era tutto un sogno, che stupida! Come poteva illudersi così? Non poteva dimenticare il presente, affogando nel passato. E ora il presente era lì, senza Marco. Aveva ragione: era una pusillanime e non si meritava il ricordo di qualcuno. Stracciò la foto che teneva tra le mani e lasciò cadere i resti. Batté i piedi violentemente sul pavimento della stanza e urlò isterica. Le uscì un suono acuto e prolungato, reso eterogeneo dai singhiozzi delle lacrime. Quante ancora ne avrebbe dovute versare? Tante. Il magone le serrava la gola. Cadde in ginocchio, sopraffatta dalla disperazione e meccanicamente prese a cercare tra i resti. Ne cercava una in particolare. La trovò in parte, ma almeno era la metà che le interessava. Non si ricordava neanche d’averla, eppure sapeva che era lì, nel mucchio di frammenti cartacei: credeva di non vederle, quelle foto, ma forse, inconsciamente, le aveva osservate tutte ed era per quello che urlava ogni volta che riconosceva un ricordo che veniva ucciso. La guardò amorevolmente e se la strinse al petto. Raffigurava un bambino dai capelli neri e la carnagione scura vestito di blu, con un grosso cappello piumato. Teneva in mano una spada di cartone e guardava verso un punto più in alto, verso lo strappo del foglio. Cristina sapeva che nell’altra metà c’era lei, a cinque anni, vestita di rosa da principessa sopra un albero. Era stato quel giorno e che lei e Marco, il bambino vestito da principe, erano diventati amici, per la pelle.
Con la foto ancora stretta a sé si portò nuovamente sotto le coperte. Lì chiuse gli occhi che avevano finalmente smesso di lacrimare, e poggiò la foto sul cuore. Batteva forte. Si lasciò cullare da quel suono e, tristemente, scivolò tra le braccia di Morfeo.

Rieccomi qui, seduta per l’ennesima volta alla scrivania, con la solita penna in mano e un altro foglio davanti. Un altro foglio che diventerà una lettera di cui non ho ancora deciso il destinatario. Non ho ancora capito se quello che scrivo sia realmente per te o più per me stessa. Ma non importa, perché tanto anche questo foglio o lettera, se così vogliamo definirla, finirà accartocciata nel cestino, come tutte le precedenti.
In effetti, non so neanche cosa scriverti. Da quando non ci sei più le mie giornate sono tutte uguali. Passo il tempo sul letto mentre aspetto il suono del cellulare, quel cellulare che mi hai regalato tu il mio diciottesimo compleanno, che mi indica che ho un messaggio. Passo il tempo in apnea, non voglio che il mio respiro, nel silenzio della stanza, copra il rumore che mi da speranza e mi fa alzare dal letto. Perché, sì, ci spero ancora... Spero ancora che arrivi un tuo segno che mi dica che sei semplicemente andato via, ma che ora sei tornato, tornato da me. Sono un’illusa, lo so. Ma è questa illusione che mi fa andare avanti.
È strano, non ho mai fatto caso a quanto tempo passassi a guardarti, ora che non posso più farlo ho troppo tempo libero. Troppo tempo in cui non so cosa fare se non fissare il soffitto e pensare, andare di ricordi. Di quando mi hai chiesto di venire al ballo con te, di quando ci siamo baciati la prima volta, di quando ci siamo fidanzati. Che stupida! Nonostante tutto io ero confusa. E ora che la confusione è sparita non ci sei più. Restano solo quei ricordi, che mi cullano la notte, che mi evitano gli incubi. In quegli incubi dove io continuo a ripeterti “Ti amo” e l’unica risposta che ottengo è “E’ sbagliato”: e mentre me lo dici mi fissi, e in quello sguardo mi dici “Non puoi amare un morto, la tua vita deve continuare anche senza di me.”
Muoio.
Muoio, per poi rivivere pochi minuti. Il tempo di vedere che sul computer ho una mail, di avere quel tuffo al cuore che mi fa tremare la mano quando clicco per aprirla. Mentre poi rimuoio quando leggo che è una qualche pubblicità.
Ed ecco che ritorna il buio.
Buio. Nient’altro.
Basta una nuvola, nel cielo limpido, a coprire il sole, no?
Forse dovrei dimenticarmi di te, ma non posso.
E mi si riaprirà la voragine che mi dilania dentro da tre mesi, ormai.
Eppure non riesco a dimenticarti. Sono ancora qui ad aspettare un tuo messaggio. E ogni volta che il cellulare o il computer suonano il mio cuore si riaccende e ho la speranza dentro che quel suono sia tu. Ma il mio cuore sobbalza anche quando sente bussare alla porta; ha la misera illusione che sulla soglia ci sia tu per dirmi che torni da me.
Invece tu sei lì, e io sono qui. Lì, lì dove? Dov’è lì?
Mi manchi.
Mi manca il tuo fare sempre lo sbruffone, incurante di tutto e di tutti; la tua dolcezza e quella timidezza che ogni tanto esce e che tu fai di tutto per mascherare; il tuo sorriso, i tuoi occhi, la tua voce; il tuo modo di prendermi in giro per il quale io mi arrabbiavo sempre un po' troppo; il tuo profumo; la tua capacità di darmi sicurezza solo standomi accanto; il tuo modo risoluto di parlare; la tua sicurezza e decisione. Mi manchi, semplicemente, tu.
Ti amo. Me ne rendo conto solo ora. Ma questa non è che una parola scritta nella sabbia, basta un’onda per far sparire il suo suono magico.
E mi do ancora una volta della stupida, parlo ancora come se tu fossi qui.
Le mie lettere sono ormai tutte uguali e per fortuna fanno tutte la stessa fine. Scrivo con mano tremante e le lacrime cancellano l’inchiostro alla stessa velocità con cui io elaboro. Spesso precedono anche i miei pensieri.
Ti voglio accanto, ho bisogno di qualcuno che mi rincuori, di qualcuno che mi faccia ridere e non pensare a niente, ho bisogno di qualcuno che mi sappia proteggere da me stessa, che mi protegga dal mondo, di qualcuno che mi faccia sognare appena lo vedo, di qualcuno che sia come te.
Ho bisogno di te, Marco.

Cristina perse il foglio tra le mani e lo stropicciò. Lo gettò con foga nel cestino e si andò a buttare sul letto.
Aveva scritto il suo nome, l’aveva pensato... Ogni volta che lo faceva sentiva una morsa al cuore e sfogava la sua rabbia verso il destino sul foglio che riportava il suo nome.
Sdraiata a pancia in su aspettava, come tutti i giorni, un qualche suono.
Dal piano di sotto giunse il rumore del campanello.
È lui! Il suo cuore saltò un battito per l’emozione. Cristina si premette il cuscino sulla faccia. Ogni suono che non fosse quello di un messaggio le dava fastidio. E le dava ancora più fastidio l’idea che ogni volta s’illudesse così. Non si mosse. In quel momento capì come si era ridotta per amore.

Ho una novità, sai? Sono incinta! Sì, è proprio così, aspetto un figlio tuo. Credo che lo chiamerò come te, Marco.

Morire per non più svegliarsi, o morire per non addormentarsi mai più. Non aveva mai riflettuto su cos’era la morte fino a quel momento. A vent’anni era l’ultima cosa che doveva interessarle, eppure era già la seconda volta che ci pensava nell’arco di tre mesi. Ma effettivamente, non si era interessata al problema neanche tanto, quando aveva desiderato morire, quando Marco se n’era andato. Semplicemente aveva avuto quel desiderio e nient’altro aveva potuto prendere posto nella sua mente. Non ci aveva riflettuto neanche quando era avvenuto l’incidente, quando il suo fidanzato era morto. Non riusciva ancora a pensarla quella parola in relazione a lui: per lei, Marco era semplicemente partito e presto sarebbe tornato, ne era certa.
Se si fosse trovata in un’altra situazione non l’avrebbe ammesso, ma ora, sdraiata in quel dannato lettino dell’ospedale, non poteva far altro che ammettere a sé stessa che aveva paura. Aveva paura di soffrire. Era questa la vera motivazione per cui non si era suicidata ed era per questo che ora era sdraiata lì: non era riuscita ad andare fino in fondo al suo intento.
E oggi, ora, in quell’istante, per la seconda volta in vita sua, aveva desiderato morire. Non le sembrava un comportamento normale, ma non le importava. Eppure, ancora una volta, si era trovata a combattere per sopravvivere, mentre i medici la visitavano e le iniettavano sostanze che neanche sapeva esistessero.
Perché?
Non lo sapeva.
Probabilmente la vita non è che l’inizio della morte, creata la prima per far sembrare la seconda un sollievo. Il pensiero arrivò limpido e non poté fare a meno di provare una stretta al cuore. Perché? Ancora una volta la risposta non arrivò. C’erano troppe cose che doveva chiarire, troppe domande a cui non sapeva rispondere. I pensieri fluivano senza che lei neanche se ne rendesse conto e alla fine la sua mente ne fu completamente invasa. Voleva piangere, sperando che le lacrime riuscissero a darle un po' di sollievo dalla mente affollata di pensieri funerei, ma non ci riusciva. Sembrava essersi completamente prosciugata. Strizzò gli occhi con forza e poi li aprì, non sopportava più l’oscurità che la circondava.
Una luce soffusa grigiastra illuminava la stanza dell’ospedale. Aveva solo ricordi confusi di quanto accaduto fino ad allora; l’unica cosa di cui era certa e che si era impressa indelebilmente nella sua memoria, era quanto avvenuto nella sua stanza. Una semplice lametta da disegno che lentamente scavava; poi sua madre che entrava, che chiamava l’ambulanza e la sorreggeva mentre lei sveniva; poi i medici che si accertavano delle sue condizioni e quelle del suo bambino; poi di nuovo il desiderio di morte.
Si voltò verso il macchinario per l’elettrocardiogramma. Una lucina verde tracciava linee sconnesse che si arrampicavano come montagne e discendevano come cascate a ritmo del suo cuore. Il suo “bip” leggero era assordante. Non voleva sentire nessun rumore e anche la luce verde che tracciava le linee sullo schermo le sembrava accecante.
La porta della camera si aprì con un cigolio quasi impercettibile. Cristina non si sforzò neanche di vedere chi era entrato. Non le importava. Voleva solo restare lì, a fissare quella dannata macchina e restarne ipnotizzata, sperando di cadere in un sonno profondo e svegliarsi capendo che tutto era stato solo un sogno. Ma era consapevole della realtà della situazione.

La camera da letto, per una volta, era in disordine. Libri e vestiti per terra, sulla scrivania, sul letto... Ovunque. Carte, biglietti, penne, matite, cellulare, dizionari, computer, stampate, lampade... E ora Cristina dormiva tranquilla. Avvolta nel piumone, il suo respiro era tranquillo come non accadeva da tempo, così come era una piacevole novità non avere il cuscino impregnato di lacrime. Aveva sorriso quando aveva notato quel fatto, prima di addormentarsi. Era la prima volta da quando Marco era partito.
Si avvolse ancora di più nelle coperte. Dalla finestra, dimenticata aperta, entrava il vento gelido dell’inverno. Fuori piccoli pezzettini di ghiaccio presero a inseguirsi nel cielo. Un turbinio di acqua e grandine penetrava nella camera, facendola rabbrividire. Un soffio raggiunse la scrivania. Un piccolo carillon vi era appoggiato sopra, sul bordo in bilico, scaraventato anche lui fuori dalla sua consueta posizione dalla furia che aveva sconvolto la stanza. Cadde.
Una musichetta dolce uscì lentamente, riempiendo la camera. Lentamente si fece largo tra gli oggetti sul pavimento insieme a lei e risalì il letto, infilandosi tra le coperte fino ad appoggiarsi sull’orecchio di Cristina. La melodia s’insinuò nei suoi sogni. La Ninna nanna di Brahms... Un sorriso istintivo si dipinse sulle sue labbra. Scostò le coperte e a piedi nudi, incurante del gelo, arrivò sotto la scrivania. Prese il suo piccolo carillon tra le mani e fissò amorevolmente la ballerina ruotare in tondo con il suo bel vestitino rosa. La musica si bloccò e con essa la ballerina. Cristina lo ribaltò e girò ripetutamente la manovella per caricarlo. Lo poggiò nuovamente sulla scrivania e tornò a guardarlo, mentre la melodia ripartiva calma e la minuscola bambolina ricominciava a danzare. Istintivamente partì anche lei. Con la sua vestaglia che si gonfiava ogni qualvolta che compiva una giravolta, volteggiava per la stanza, ferendosi le piante con gli oggetti che incontrava sul pavimento mentre ballava. Si sentiva come quella piccola ballerina dentro il carillon.
Aprì le braccia e iniziò a girare su se stessa sempre più forte, sempre più forte, sempre di più... Rideva. Una risata rauca le usciva dalla gola secca. Era da tanto che non lo faceva, non credeva nemmeno di essere più capace. Le girava la testa, ma continuava imperterrita. E rideva.
Iniziò a rallentare lentamente, mentre abbassava le braccia e le incrociava davanti a lei, come se stesse cullando un bambino, il suo bambino. La musica era finita, ma lei non se ne curò. Continuò a cullare quel figlio immaginario, danzando sulla melodia prodotta dalla sua risata liberatoria. Rideva e piangeva, piangeva di felicità.

Ho una novità, sai? Ero incinta! Sì, è proprio così, aspettavo un figlio tuo. No, non sono impazzita, non ho sbagliato i verbi. È solo che non lo aspetto più. Oggi, il mio bambino ed io ti abbiamo raggiunto.
Vienici a cercare.
Ti prego, Marco.
 
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view post Posted on 21/5/2011, 08:50
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Complimenti! Non ho parole, è una storia meravigliosa.
Boh, non so che dirti, è fantastica! Nessun errore, niente di niente!
Ancora complimenti e bravissima!
 
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(¯`•. Prin¢ess Dreamer .•´¯)
view post Posted on 21/5/2011, 15:25




Che carina! *.* Grazie mille, sono contenta che ti sia piaciuta! ^^
 
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view post Posted on 21/5/2011, 15:34
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Ma poi.. l'ultima parte in corsivo.. fantastica *w*
 
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